Come costruire organizzazione che non hanno paura

Sviluppare delle organizzazioni che non hanno paura aumenta la produttività e la felicità.

Alla recente Assemblea annuale Connectance (leggi qui), il venerdi lo abbiamo dedicato come tradizione alla formazione interna con l’Academy.
Oltre ad un meraviglioso lavoro sui livelli logici di Robert Dilts, Fabio de Luca ha condiviso alcune riflessioni scaturite dalla lettura del libro “The Fearless Organization” di Amy Edmondson, sul quale ha costruito un ragionamento per lo sviluppo delle organizzazioni.

Riportiamo di seguito il testo integrale del suo approccio alle organizzazioni senza paura.

Fearless-Organizzazioni-senza-pauraOggi vorrei condividere con voi una lettura che mi sta molto a cuore: “Organizzazioni senza paura”. Ho sempre pensato che le organizzazioni dove la paura sia poco presente funzionino meglio. L’ho sempre pensato, perché egoisticamente erano quelle in cui mi trovato meglio io. Molto autocentrato lo ammetto.

Ne sono estremamente convinto e penso che riguardi qualunque tipologia di organizzazione. Possiamo parlare sicuramente di azienda, ma credo valga anche per un’organizzazione familiare, come per un’associazione del terzo settore.

Nessuna organizzazione secondo me funziona bene quando la paura serpeggia tra i suoi membri.

 

Purtroppo, mi capita spesso di sentire persone contraddirmi dicendo che senza un po’ di paura è difficile far rigar dritto tante persone. Senza una legge che punisce la persona che sbaglia, non ci sarebbe possibilità di avere ordine pubblico, per esempio. Effettivamente, per rispondere a un’obiezione così formulata bisogna fare un passo indietro.

Cosa intendiamo con organizzazione senza paura?
Parliamo di una organizzazione dove esista una cultura organizzativa in cui le persone si sentono libere di proporre le proprie idee, favorendo l’innovazione e la condivisione delle proprie competenzesenza paura di ritorsioniconseguenze o altro che possa impedire questo libero flusso di scambi.
Ora, non mi pare di aver citato l’assenza di regole chiare per tutti e l’assenza di confini entro i quali le persone debbano e possano muoversi. Le regole esistono e vanno rispettate, ma le regole hanno sempre delle aree di discussione, legate all’interpretazione di esse stesse all’interno di ciascun comportamento.
Non sto parlando di interpretare le regole a proprio favore, ma di comprendere che anche le regole che ci permettono di vivere insieme hanno delle sfumature che non sempre è possibile conoscere e condividere in modo chiaro. Per far sì che un sistema attui al meglio le norme, serve creare uno scambio relazionale sano.
membri devono essere in grado di darsi feedback con costanza e apertura perché questo clima può permettere a tutti di apprendere al meglio le norme e interpretare insieme le sfumature che alle volte non vengono percepite da tutti in modo uguale.

Le equipe sanitarie e i loro protocolli

Non esiste, o perlomeno non l’ho trovato ancora, un manuale che descriva ogni regola senza che ci possano essere eccezioni e/o situazioni in cui quella regola possa essere gestita in modo diverso. Anche in ambito medico, dove mi trovo spesso a lavorare, esistono protocolli e linee guida.
Nessuno di questi strumenti regolatori è prescrittivo, perché la stessa medicina è consapevole che l’intuizione delle persone e delle squadre, fatte di infermieristrumentistichirurghi, è importante perché tutte le équipe possono trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e non ben descritto dal protocollo.
Ecco dove interviene la paura. In tutte queste aree, la paura può insinuarsi e ridurre gli scambi di comunicazione sani che servono per generare nuove regole, condividere gli insight (intuizioni) e far crescere la cultura organizzativa della squadra.
Queste intuizioni sono la bellezza dell’essere umano, ma sono anche il grande rischio che ogni persona che le segue possa anche fare dei danni. Cosa è meglio fare quindi?
Sembra impossibile dettare regole per tutto, ma va disciplinata la possibilità che le intuizioni possano essere verificategestite in modo armonico nei team. Significa quindi che possiamo credere nel potere del confronto tra persone che lavorano insieme e che insieme possono gestire al meglio le regole e individuare al meglio i correttivi che possano essere necessari per rendere queste regole adatte a ogni contesto.
Il problema che però viene fuori quando facciamo lavorare persone insieme è legato a due aspetti: da un lato alla difficoltà di comunicare in modo chiarodiretto e sintetico e dall’altro alla disponibilità di ascolto di chi ha la posizione di leader e degli altri membri del team.

Analisi costi benefici

Mettere in discussione una procedura, perché magari si è notato qualcosa di diverso dal solito e che magari può essere utile condividere, ha un costo sicuro, tangibile nel breve. Bisogna prendere il coraggio di affrontare un conflitto con qualcuno che magari ha già scelto di iniziare un determinato percorso.
Se non è presente un clima di fiducia e di libero scambio di idee, questo sforzo può non essere così facile. Se poi chi ha preso le decisioni sta in alto nella scala gerarchica, la cosa è ancora più onerosa, perché significa rischiare delle conseguenze per aver messo in dubbio il “capo”.
Non uso in quest’ultima espressione leader perché in italiano la parola “capo” ha un sapore gerarchico e un po’ stantio. Eppure, sebbene possa sembrare roba di altri tempi, ancora i “capi” esistono e spesso sono quelli che rendono la paura diffusa nelle organizzazioni.
leader, al contrario, nella mia visione sono capaci di creare un clima all’interno del quale questi costi siano minimizzati. Un ambiente in cui il libero scambio dei dubbi e delle domande sia una costante e non un’eccezione.
In un ambiente come questo il fattore tempo è gestito al meglio, perché i dubbi vengono tirati fuori subito e le discussioni diventano veloci e chiarificanti. Qui i leader stanno facendo un grande lavoro, perché hanno creato dei nuovi leader potenziali nel proprio team di lavoro.
Ultimamente, mi capita di leggere on line la frase “I veri leader non creano seguaci ma nuovi leader”. Non sono mai stato tanto d’accordo con una citazione. La leadership funziona quando c’è la possibilità di esprimersi pienamente, senza conseguenze o paure a tutti i livelli.

Quindi come potete leggere i costi sono tanti. Ma i benefici allora?

Purtroppo, i benefici di una segnalazione, di un dubbio, di una possibile revisione di una scelta sulla base di dati ancora poco chiari sono deboli e troppo sovente non vengono considerati sufficienti per riaprire un caso. È proprio per questo che serve apertura al feedback anche quando gli elementi non sono chiari.

Progetto Aristotele

Non so se queste parole vi abbiano convinto. I contenuti che vi ho condiviso sono ispirati a quanto ho letto nel libro di Amy Edmondson, un’autrice che ho scoperto grazie a uno studio che, qualche anno fa, mi ha fatto aprire ulteriormente gli occhi su questo tema.
Fu scelta per uno studio sull’eccellenza dei team di Google. L’idea alla base dell’analisi era ricercare quali caratteristiche avessero i team più eccellenti, rispetto ai team con performance meno alte. L’idea era molto interessante, perché il numero dei team da analizzare era ampio e sparso in tutto il mondo.
C’era quindi sia la numerosità che la diversità tra le competenze delle persone che partecipano a ciascun gruppo. Quindi i risultati potevano essere statisticamente significativi e toccare anche un tema di alto interesse sociale.
Uno degli item di osservazione fu il numero di errori e fallimenti che potevano essere fatti dai diversi gruppi.

Quali gruppi potevano vantare meno sbagli? Secondo voi, quali team fra eccellenti avevano ricorrenze peggiori e migliori?


Probabilmente, anche voi avete dato la stessa risposta della Edmonson. I team eccellenti fanno meno errori, perché sono più capaci e hanno performance più elevate. Invece, no. Lo studio portò a un risultato sorprendente. I team che avevano performance sopra la media, facevano anche un numero di errori sopra la media.

Come è possibile?

 

Qui, la Edmondson ha fatto la differenza, indagando proprio il perché di questa differenza così contro intuitiva. Dalle analisi successive, venne fuori che i gruppi migliori erano quelli che condividevano maggiormente gli errori e i dubbi, c’era un clima di apertura reciproca incredibile.

Gli altri gruppi, invece, tendevano ad ammettere meno errori e soprattutto evitavano di condividerli apertamente. Spettacolare. Feedback continui, capacità di dirsi le cose, ammettendo i fallimenti era alla base del successo. E chi l’avrebbe detto?

Inoltre, non c’erano differenze tra gruppi in termini di diversità. Gruppi più omogenei potevano essere meno performanti di gruppi più eterogenei. Quindi il fattore diversità non andava a impattare sul numero di errori, ma diventava, in un clima di fiducia, un fattore critico di successo per i risultati.
Quindi, possiamo presumere che ove i team siano ricchi di diversità sia ancora più importante costruire un clima di apertura e condivisione.
Amy Edmondson, nei suoi studi, sostiene che i gruppi che funzionavano meglio e avevano questi speciali comportamenti erano caratterizzati da alta Sicurezza Psicologica. La Edmonson descrive questa sicurezza come un fattore che permette ai membri del team di avere il coraggio di assumersi un rischio relazionale.
Ossia, in questi team le persone sono in grado di dirsi che non sono d’accordo con qualcosa che sta avvenendo o di segnalare errori anche quando implicano mettere in dubbio gli ordini di chi sta sopra. Ovviamente, le condizioni per cui tutto ciò avvenga sono diverse. Elenco quelle che mi hanno colpito di più:

  • La prima è che ci sia sempre un team che ascolti ogni opinionedubbio e feedback anche quando doloroso.
  • La seconda è che sia coraggio da parte di tutti di esprimere, pagando i costi dell’apertura e investendo su i possibili benefici di una segnalazione tempestiva.
  • La terza è che ci siano regole di scambio bene definite che permettano un dialogo costruttivosenza giudizio sull’operato altrui, ma rivolto esclusivamente al bene comune delle persone, dell’azienda, del cliente. Mai sulla persona, sempre sul comportamento o scelta presa.

Organizzazioni senza paura

Nel libro trovate molti esempi di successo e di insuccesso nella gestione della sicurezza psicologica che possono essere utili per comprendere che non stiamo parlando di casi isolati e piccoli, ma di casi molto interessanti in termini di impatto sociale e di performance organizzative.

La sicurezza psicologica è sufficiente a rendere le organizzazioni migliori e performanti?
La risposta è assolutamente no. Serve anche altro. È necessario aggiungere un senso di responsabilità verso le sfide che permetta di individuare i giusti obiettivi da raggiungere.

Incrociando queste due variabili nasce una matrice che spiega in modo chiaro come i team fossero divisi all’interno di Google e dove stessero soprattutto quelli vincenti nel breve, medio e lungo periodo.

Matrice-Psycologal-Safety

Come è facile intuire la maggior parte dei gruppi particolarmente performanti si trovavano nel quadrante in alto a destra. Altri gruppi potevano vivere per momenti anche in basso a destra (nel quadrante dell’ansia), perché nel breve periodo la paura poteva anche funzionare per alimentare il raggiungimento di obiettivi importanti. Ma.

Sì c’è un ma. Nel tempo i gruppi finivano per fare errori che minavano le stesse performance del team e molti di questi errori venivano fuori troppo tardi, quando erano impossibili da risolvere.

Chi avesse voglia di leggersi il libro di Amy Edmondson può scoprire quanto è frequente avere persone che vivacchiano anche negli altri due quadranti.

Quindi che facciamo?

Come è facile intuire la maggior parte dei gruppi particolarmente performanti si trovavano nel quadrante in alto a destra. Altri gruppi potevano vivere per momenti anche in basso a destra (nel quadrante dell’ansia), perché nel breve periodo la paura poteva anche funzionare per alimentare il raggiungimento di obiettivi importanti. Ma.

Sì c’è un ma. Nel tempo i gruppi finivano per fare errori che minavano le stesse performance del team e molti di questi errori venivano fuori troppo tardi, quando erano impossibili da risolvere.

Chi avesse voglia di leggersi il libro di Amy Edmondson può scoprire quanto è frequente avere persone che vivacchiano anche negli altri due quadranti.

learning-imparare-opzioni

Cosa mi porto a casa

Torno in conclusione sul fatto che queste riflessioni si applicano in ogni organizzazione. Non importa la dimensione, né la sua diversità interna, né il tipo di attività. Serve per ciascuna di esse impegno per creare una cultura di Sicurezza Psicologica e ancor di più per non smettere di manutenerla nel tempo.

Purtroppo, come scrive la Edmondson, non è una meta la sicurezza psicologica, è più vicina al concetto di viaggio stesso. E, durante ogni viaggio, dobbiamo ricordarci di portarla con noi e farla crescere sempre, anche perché non sapremo mai quali certezze dovremo perdere o quali regole ci troveremo a mettere in discussione davanti a situazioni nuove.

Per portarla sempre con noi bisogna avere il coraggio di restare umili (e non venire umiliati, come ho sentito dire in tv). Come tra l’altro ci ricorda anche il nostro amico Socrate quando sosteneva che bisogna tornare a sapere di non sapere.

Dobbiamo disaffezionarci al nostro ego (qui so di avere da lavorare), riducendo al minimo propria permalosità (colleghi e amici ora non prendetemi in giro… anzi…fatelo).

Lo sto dicendo a voi, ma lo spero davvero anche per me.

Mi auguro che questo 2023 nascente possa portare in ogni famiglia, più o meno allargata, la possibilità di costruire un proprio mondo dove stare senza paura (quella inutile ovviamente, perché alcune paure servono), dove la zona di apprendimento continuo sia la costante e dove il divertimento e il gioco possano contribuire al vostro stare bene. E anche al mio.