Lettere da se stessi

Ognuno nel calcare gli intricati sentieri della vita si imbatte continuamente in se stesso ancor prima che negli altri e si misura con la complessa gestione del proprio verdeggiante e/o cinereo mondo interiore.

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Pensate di essere riservati, schivi, oppure esuberanti, estroversi? I riservati, si sa, tacciono perlopiù, contengono, reprimono l’estrinsecabile; gli estroversi raccontano, cercano il confronto, manifestano con l’eloquio e questo implica che vi sia almeno un ascoltatore che presumibilmente partecipi esprimendo la propria opinione.

Gli psicoterapeuti da Freud in avanti sono concordi nell’asserire che parlare delle proprie esperienze negative sia terapeutico, ovvero benefico. Il solo parlare agli altri comporta infatti dal loro punto di vista, una catarsi, un superamento del rimuginare e l’interruzione di pensieri ricorrenti e tormentosi, auto-inibizioni e loop infiniti.

Scrive James W. Pennebaker: A parità di altre condizioni, il fatto di parlare ad altri di ciò che ci ha turbati favorisce l’espressione emozionale e l’insight. Ma fino a che punto la catarsi e l’insight presuppongono la presenza di altre persone?

Non si sta suggerendo di parlare alla propria immagine riflessa in uno specchio.

Quel che si vuole indicare è la possibilità di scrivere come antidoto agli ordinari squilibri psicologici, emozionali e quindi fisici, oltrepassando il presupposto di un ascoltatore. Scrivere sentimenti e pensieri, raccontare per iscritto, fermarsi a farlo e, per l’intero tempo scelto, smettere finalmente di muoversi, di correre freneticamente nell’incessante ruota delle necessità.

Un quaderno, una penna, il silenzio, la calma e la solitudine voluta di un luogo appartato per poter trasporre su carta parole che traducano un sentire che non si organizza diversamente. Molti lo hanno sempre fatto, ci sono persone che tengono un diario per fermare i ricordi, le emozioni e il fugace susseguirsi dei momenti dell’esistenza, o per riordinare i pensieri e, una volta messi nero su bianco, osservarli, prenderne le distanze per raggiungere l’ossimoro di una soggettiva obiettività.

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Altri credono di non saperlo fare, o non vogliono, non ritengono utile scrivere di sé trascurando che la scrittura sia uno strumento espressivo peculiare solo agli umani, una occasione per comprendersi e modificarsi, un metodo per rivelarsi, aprirsi a possibilità.

Poter trasporre i pensieri in parole è una risorsa meravigliosa, un dono che pacifica e dimostra a noi stessi le strabilianti capacità riflessive e riparatrici di cui siamo dotati. E scrivendo parole prendono corpo storie, impronte emozionali, tracce di noi; giorno dopo giorno, oltre la descrizione di quel che urge, delle esperienze vissute, dei fatti, è soprattutto nel nominare le emozioni provate che riceviamo in ricompensa il recupero di una relativa serenità.

L’impellenza della vita si oppone alla scrittura e dentro languisce imprigionato un universo di parole inascoltate, nostra intrinseca essenza da liberare.

Scrivere in pace, ogni qual volta si avverta la necessità di esplorare il proprio mondo interiore, permette di osservare con il distacco necessario l’immagine della realtà che ogni giorno delineiamo nell’azione, così come, al ritorno da un viaggio, si leggesse una lettera inviata a se stessi.